L’editoria, per come la conosciamo, nasce sostanzialmente da una innovazione tecnologica: la stampa a caretteri mobili.
Si può quindi dire che il motore del cambiamento, al di là della paternità dell’invenzione (tralascio le polemiche del caso), nasce da uno stampatore. La figura dell’editore è conseguenza diretta di tale invenzione. Non a caso storicamente i primi editori erano tutti anche stampatori: dominavano la tecnologia che permetteva loro di trarre profitto con la distribuzione.
Negli anni, è diventato fondamentale specializzarsi nella distribuzione e così gli editori si sono emancipati dagli stampatori divenendo delle pure società distributive, seppur di contenuto ma a ben vedere anche di prodotto. Sia chiaro, è rimasto centrale il ruolo della scelta dei contenuti, ma più che quello la differenza l’ha fatta la capacità di proporre prodotti validi in maniera facilmente fruibile. L’editore, insomma è un né più né meno di un “produttore” cinomatografico (paragone un po’ forzato visto che quest’ultima figura è successiva).
Da industria, l’editoria è diventata quindi servizio.
La conseguenza diretta di tale operazione è stata che gli editori hanno smesso di investire in ricerca e sviluppo, imparando a utilizzare ciò che altre aziende, industriali, proponevano loro per abbattere costi di stampa e di produzione, in modo da concentrarsi sempre più sull’analisi e la scelta dei contenuti, nella promozione, nella distribuzione nelle politiche di prezzo. In una parola nel marketing.
Nella maggior parte dei casi, quando oggi guardiamo una casa editrice troveremo che, salvo qualche eccezzione, nessuna tecnologia è proprietaria: non lo è il processo di stampa, non lo sono i software di impaginazione, non lo è neanche la piattaforma di pubblicaizone online, il cms, così come i formati utilizzati per i libri digitali.
è sostenibile una industria che non investe in ricerca?
Il nemico degli editori di oggi sono le software house, non solo perché hanno la tecnolgia, ma perché, grazie a questa, controllano anche la distribuzione.
L’errore che molti editori stanno ancora facendo è non aver compreso questo cambio di paradigma: la distibuzione è tecnolgia, o se preferite, la tecnologia permette la distribuzione. Affidarsi a terzi non risolve il problema.
Prendiamo quelli che vengono considerati i più grandi player di distribuzione del contenuto online, ad esempio. Google investe ogni anno miliardi di dollari in ricerca e sviluppo a 360°, così fa Facebook, ma anche se considerassimo realtà italiane, come King, che produce giochi per telfonini (semplifico) ha tecnologie proprie e sfrutta i colossi del web per fare business.
Senza entrare troppo nei dettagli, tutti i colossi del web vanno nella direzione dell’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo (http://www.itnews.com.au/News/329001,tech-companies-spend-big-on-rd.aspx ). Quanto investono queste aziende in ricerca? Difficile dirlo, ma in media il dato oscilla tra il 4 e il 10% del fatturato. In Italia però le cose vanno più o meno allo stesso modo: le aziende del settore informatico ed elettronico investono una media del 4% in ricerca. tradotto vorrebbe dire che per ogni milione di euro di fatturato circa 40k euro sono investiti in un ricercatore junior. Qualcuno lo sta facendo? Chi è abituato a fare trading (scusate la brutalità della definizione, ma un editore tutto sommato “compra” contenuti e li rivende impacchettati) difficilmente vede il ritorno. Questo è il problema, almeno in parte. Perché per investire bisogna avere un modello di business, bisogna intuire le esigenze del pubblico (magari quelle che ancora non conosce), non solo nella scelta del contenuto, ma anche nella tipologia di fruizione, oltre che del tipo di contenuto, che non necessariamente è uguale a ciò cui siamo abituati.
Qualunque informazione digitale in grado di catturare l’utente o che lo induca a una spesa è un contenuto monetizzabile in qualche modo. Tuttavia ragionare secondo il vecchio schema produttore-fornitore non risolverà mai il problema di fondo dell’editoria italiana nell’affrontare le nuove frontiere digitali, cioè la mancanza di controllo sulla distribuzione.
A questo punto il dubbio che pongo è un’altro: strozzati da una situazione congiunturale difficile, le case editrici riusciranno a mettere in pista investimenti in ricerca che ne garantiranno la vita nei prossimi anni? Quante case editrici hanno un IT interno in grado di sviluppare piattaforme e software? Chi è andato avanti per acquisizioni, ha poi pensato all’intergrazione con l’esistente per creare poli di ricerca dedicati?
Mantenere quindi il controllo dello sviluppo sarebbe ancora più importante della proprietà o meno della tecnologia. A mio modo di vendere, infatti, se una casa editrice riuscsse a lanciare una piattaforma “open” che in grado di posizionarsi come nuovo standard probabilmente ne avrebbe sempre e comunque il controllo, perché possiederebbe la conoscenza del sistema. Ma davvero gli editori si stanno muovendo in questa direzione?